FILOSOFIA
Đinh Lý Tam Nguyên, la legge dei tre principi.
Tesi: Ist.re Bao Long Marco per il conseguimento al grado di 3 dang
Definizione: Iniziamo con una definizione sintetica e chiara, per approfondire poi taluni aspetti. Per la legge dei tre principi, ogni mutamento, ogni evoluzione di un Universo, ogni transizione da uno stato ad un altro risponde e segue fedelmente tre principi basilari. Tali vengono così enucleati:
1- Nguyên Lý Tiên Nguyên: ogni cosa è l’effetto di una causa e diviene per estensione astratta o concreta. Così come la vita ha un creatore, l’Arte Marziale ha un’origine.
2- Nguyên Lý Vi Nguyên: qualora si ammettono le macro esistenze si devono ammettere anche le più piccole. Per esempio se il Viet Vo Dao esiste deve avere dei praticanti.
3- Nguyên Lý Quán Nguyên: questa è la relazione esistente tra i primi due principi. L’arte marziale è stata creata ed i praticanti esistono, il Viet Vo Dao è una realtà. (A.S.D. Viet Vo Dao Veneto, L’universo del Viet Vo Dao. Introduzione, storia e filosofia dell’Arte Marziale vietnamita, Ed. MikPierSoft, Padova, 1996).
Il primo principio: sviluppo nel pensiero filosofico occidentale e nel Viet Vo Dao.
Procediamo con ordine. Il primo principio, essenzialmente, si addentra nella spinosa questione causa-effetto. Nel pensiero filosofico occidentale, speculazioni a riguardo risalgono all’antica Grecia, patria di filosofi e pensatori. Nella storia della filosofia antica il concetto di causa, con quello connesso di relazione causale, ha indicato l’esistenza di una condizione necessaria tra i fatti dell’esperienza che vengono interpretati come collegati fra di loro da un rapporto di causa-effetto.
La paternità di tale teoria va sicuramente attribuita alla scuola atomistica di Leucippo, e, quindi la si può far risalire al V secolo a.c. Da qui, iniziò tutta una tradizione filosofica e scientifica che avevamo come scopo l’interpretazione razionale dei fenomeni naturali. Sin dall’inizio, il pensiero filosofico greco aveva visto nei fatti empirici l’esistenza di una connessione necessaria che poteva essere o di origine puramente fisica, materiale, come sostenevano gli atomisti che pensavano a cause meccaniche, oppure di origine immateriale, dovuta cioè a cause intelligenti che operavano finalisticamente, come ritenevano Anassagora, Platone e gli stoici.
Una trattazione estesa del concetto di causa, a cui si rifarà la filosofia antica e medioevale, fu niente di meno che dello stesso Aristotele il quale considerava il sapere legato alla conoscenza delle cause. Le stesse cause potevano essere di diversi tipi: la causa materiale (ovvero la materia di cui una cosa è costituita, ad esempio il legno è la causa materiale di una barca), la causa formale (ovvero la forma, il modello o l’essenza di una cosa), la causa efficiente (ciò che ha prodotto la cosa, l’agente, detto in termini moderni), la causa finale ( ovvero il fine che quella cosa deve realizzare con la sua esistenza). In seguito la scolastica ampliò e modificò leggermente la trattazione aristotelica, concentrandosi sulla definizione di causa prima che, attraverso la dimostrazione cosmologica, veniva identificata con Dio.
La filosofia dell’età moderna, infine, approfondì il concetto di causa efficiente facendolo coincidere con quello di legge o connessione causale dove il rapporto causa-effetto è rappresentato da grandezze misurabili matematicamente. I principali rappresentanti di questa nuova concezione furono, niente meno, Keplero, Galilei, Descartes). Ed è proprio da questo “nucleo forte”, ovvero lo sviluppo dei concetti di causa-effetto, si può far risalire la nascita della fisica classica che, con Newton e Laplace, fa del determinismo e del meccanicismo ineliminabili punti di vista da tenere ben in conto nella trattazione dei fenomeni naturali.
Tuttavia, è convinzione comune nel pensiero moderno che il meccanicismo si sia rivelato inadatto a spiegare il mondo microscopico tanto quanto macroscopico. Il fallimento – o presunto tale – del meccanicismo in epoca moderna è presto spiegato dalla natura intrinseca del nuovo trend materialista e consumista del mondo occidentale e, come vedremo, ha delle conseguenze anche per il primo principio di cui abbiamo parlato.
In un mondo che si evolve a velocità spaventosa –vertiginosa secondo la visione dei Futuristi- non v’è più tempo di ragionare sulle origini o sulle cause. L’imperativo dominante è diventato quello del risultato. Tutto è apparenza, quello che si considera, in fin dei conti, è solo la punta di un iceberg, ovvero la sua parte immediatamente visibile. Già, ma come ben sappiamo, alle radici di questi isolotti di ghiaccio, vi sono gigantesche fondamenta celate dai mari oceanici. Il sottovalutarle è stato causa di ingenti perdite di vite umane… Questo esempio, ci fa riflettere circa l’importanza di questo principio cardine del Viet Vo Dao. La nostra Arte Marziale, attraverso la sua filosofia, ci vuole semplicemente insegnare a non considerare solo l’effetto, visibile o concreto. Ciò rappresenta un grosso insegnamento filosofico per i praticanti, sia dal punto di vista marziale che umano.
Nell’Arte Marziale, ad esempio, può volere dire che dietro una singola tecnica si celano anni e anni di studi, di pensieri filosofici, di studi approfonditi. Inoltre può anche voler dire che un Quyen eseguito alla perfezione e solo l’effetto di duri allenamenti e di tanto impegno. Come vediamo, sono molteplici le applicazioni che questo principio trova nel Viet Vo Dao. Ma il Viet Vo Dao stesso ha un origine, è l’effetto di tutta una filosofia di vita, di un nucleo primigenio da cui tutto si sviluppò. Per questo, il primo principio può essere applicato anche alla vita di tutti i giorni.
Facciamo un esempio. Oggigiorno, se uno ha mal di testa, prende un aspirina, se ha mal di schiena o dolori muscolari prende un analgesico. Queste sono tutte cose che mirano all’effetto e non alla causa. Si cerca di intervenire sulla manifestazione immediata e concreta, cercando di placarne i dolori. In pochi vanno alle origini del male. In quanto praticanti di Viet Vo Dao noi sappiamo che, invece, la medicina tradizionale orientale interviene all’origine del male.
I meridiani, la digitopressione, l’agopuntura, sono tutte cose che curano il malessere fin dalla sua più remota origine. Tempo fa mi si è presentato un esempio concreto palese: un irritazione alla pelle. La medicina moderna comportò l’utilizzo di cortisonici. L’irritazione passò brevemente ma si ripresentò ogni mese, sempre più acuta. La medicina orientale implicò la stimolazione di alcuni punti –ad esempio intestino crasso, pancreas etc..- e l’irritazione, lentamente ma definitivamente passò.
Riassumendo, il primo principio Nguyên Lý Tiên Nguyên ci invita a considerare le cose nel loro duplice aspetto: c’è un effetto, visibile o concreto, ma tale effetto esiste in virtù di una causa e di un’origine. L’origine –quindi anche quella del Viet Vo Dao- va conosciuta, rispettata e tenuta in dovuta considerazione.
Il secondo principio, tra pensiero occidentale, filosofia orientale e Viet Vo Dao.
Passiamo, dunque, al secondo principio che affronta il tema delle micro e della macro esistenze, nonché della loro relazione.
I termini macrocosmo e il suo correlativo microcosmo furono usati fin dai tempi dagli antichi filosofi. Molti filosofi delle prime epoche della storia della filosofia, infatti, consideravano il mondo come un ente animato analogo all’uomo e composto, come tale, da anima e corpo.
Questa concezione si rispecchiò specialmente nella corrente di pensiero detta misticismo ermetico: per l’ermetismo il rapporto che legava macrocosmo e microcosmo era un rapporto di analogia e, proprio il principio di analogia, fu a fondamento di questa visione della struttura del reale. Nel tentativo di pervenire ad una visione unificata dell’universo intero, ivi incluso l’essere umano, e per poter infine uscire dal caos della molteplicità inordinabile, l’ermetismo elaborò un assioma, detto di analogia o di equivalenza, che lo stesso leggendario caposcuola, Ermete Trismegisto, avrebbe descritto con queste parole
Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto.
E questo per realizzare il miracolo di una cosa sola da cui derivano tutte le cose, grazie ad un’ operazione sempre uguale a se stessa. (Ermete Trismegisto, La tavola di Smeraldo).
Gli stessi pitagorici avrebbero tentato un’operazione simile, costituendo le scienze dei numeri, la matematica e la geometria, e i numeri stessi come elementi in grado di unificare l’universo, poiché erano proprio i numeri che creavano quelle corrispondenze tra le manifestazioni molteplici dell’essere.
Facendo un gran salto generazionale, la teoria del Macrocosmo e del Microcosmo ebbe nel Medio Evo e nel Rinascimento una grandissima fortuna. Al Macrocosmo fu associata l’immagine dell’Universo, del Mondo, del locus in cui risiedeva Dio, la Luce Creatrice propagante in ogni direzione e capace di dissolvere le tenebre e di fornire il principio attivo generatore di tutte le cose. L’Uomo, creato da Dio e nel quale la Divinità si rifletteva, fu, invece, il Microcosmo e l’Universo di cui costituiva una replica in piccolo.
Macrocosmo e Microcosmo erano dunque costituiti da una sola materia formata da due principi contrapposti: la Luce Infinita e le Tenebre Oscure. Nel dualismo gli alchimisti credettero di individuare il mistero della Pietra Filosofale, della Quintessenza, del Medicamento Universale in grado di guarire ogni tipo di malattia.
In pieno romanticismo, con Leibniz, arriviamo all’affermazione secondo la quale le complessità che si incontrano in un macrocosmo, si riflettono automaticamente in ogni suo microcosmo, ovvero in ogni parte componente suddetto macrocosmo.
Inoltre, uno dei principi del pensiero scientifico dell’Ottocento, il tanto discusso evoluzionismo, introdusse il rapporto significativo tra ontogenesi e filogenesi, riattivando quel modello unitario legato appunto al principio di analogia tra macrocosmo e microcosmo ch’era stato la chiave di volta della filosofia romantica della natura.
Questo principio esplicativo lo ritroviamo sotto altri nomi implicitamente e in particolare nell’evoluzionismo di Lamarck, il quale sosteneva la tesi secondo cui i caratteri acquisiti possiedono una caratteristica di ereditarietà. L’impronta del principio di analogia tra macrocosmo e microcosmo la ritroviamo ancora nella “legge biogenetica fondamentale” di Ernst Haeckel che trovò un legame tra lo sviluppo dell’embrione che rimanda all’ontogenesi e la stessa evoluzione della specie che invece rimanda alla filogenesi.
C’è infine da dire, come teoria su microcosmo e macrocosmo abbiano avuto ripercussioni su una delle scoperte più importanti del nostro tempo: la psicoanalisi. Tuttavia, è sufficiente dire che mentre Freud si mantenne più cauto al proposito ritenendo il modello unitario basato sull’analogia macrocosmo-microcosmo solo una ipotesi suggestiva e senza, quindi, farla risaltare nell’ambito delle sue ricerche, un altro psicoanalista, l’ungherese Sandor Ferenczi, ne farà il baluardo delle sue teorizzazioni che gli costeranno, in fin dei conti, l’ostracismo da parte dei freudiani più convinti. Ritornando però a Nguyên Lý Vi Nguyên, secondo questo principio se si considerano le macro esistenze si devono necessariamente ammettere le micro esistenze; se prendiamo in considerazione l’universo dobbiamo considerare anche le galassie ed i sistemi solari che lo compongono, se consideriamo la società dobbiamo considerare anche i singoli individui che la compongono. Se si presta attenzione, tra l’altro, questo è lo stesso principio che sta a base di un’altra disciplina strettamente correlata alla medicinale tradizionale orientale: la riflessologia.
Tuttavia, quello che ci interessa constatare ora sono i riflessi che questo principio può avere nel Viet Vo Dao, e che apporto possa dare alla vita di ogni praticante. Come detto, vi è un gioco di corrispondenze da micro e macro. E’ un po’ come una matrioska o come un insieme di scatole cinesi. Senz’ombra di dubbio, ad ogni modo, caratteristiche e peculiarità del macrocosmo sono rintracciabili nel microcosmo. Sarebbe troppo ovvio fare il classico esempio della goccia di acqua pura che, gettata in un bicchiere di acqua putrida si contamina. Ma pensiamo, per esempio, al corpo umano. Se vi è un solo organo che non funziona bene (micro), gli effetti malevoli si manifestano in tutto il corpo (macro). Se un singolo ingranaggio di un motore si incastra, se un singolo tassello di una catena di montaggio si inceppa, tutto l’insieme ne risente. Viceversa, quando un albero muore, cessa di vivere non solo l’albero in sé, bensì anche tutte le foglie, le radici, persino i parassiti che componeva l’insieme albero-macrocosmo. Evidentemente ciò si riflette anche nel Viet Vo Dao. Se ci fossero problemi gravi, per tutto il Viet Vo Dao, ecco che a risentirne ne sarebbero tutti i praticanti che, non v’è dubbio, compongono il Viet Vo Dao. In egual maniera però, il Viet Vo Dao stesso –un macrocosmo in questo caso- non esisterebbe senza le sue parti componenti, i suoi microcosmi o microesistenze, ovvero i propri praticanti.
Si potrebbe concludere che il legame che lega fra loro micro e macroesistenze è vitale ed indissolubile. Perciò il secondo principio ci invita a riflettere circa questa importanza, per non dare nulla per scontato e per tenere sempre e comunque in giusta considerazione tanto il nostro macrocosmo quanto il nostro microcosmo.
Il terzo principio, la “sintesi” perfetta.
Infine c’è il terzo principio, il quale può senz’altro essere letto come una somma ed una sintesi dei due precedenti. In poche parole, nella nostra vita e, di conseguenza nella pratica del Viet Vo Dao, bisogna sempre considerare che nulla accade senza una causa scatenante e che non può esistere il macrocosmo se non esiste il microcosmo. Ad esempio si può dire che non può esistere la società se non esistono le persone che la compongono e che l’operato di ogni elemento, di ogni atomo che la compone, ha conseguenze per la società. Se ogni singolo adempie il compito cui è preposto, la qualità della vita nella società migliora portando beneficio anche al singolo, ma se questo non accade la qualità della vita peggiora ed anche il singolo ne subirà le conseguenze.
Rapportato al Viet Vo Dao il legame è presto deducibile. Il Viet Vo Dao è una realtà, grazie all’esistenza dei suoi praticanti.
Tuttavia, l’andamento del Viet Vo Dao può influenzare la vita dei praticanti ma, soprattutto, è la singola condotta di ogni praticante a determinare sviluppo o regresso dell’Arte Marziale. Il comportamento dei praticanti sarà una causa che produrrà degli effetti.
Questi, ovviamente, si ripercuoteranno nel microcosmo del singolo allievo, ma verranno amplificati e elevati anche a livello di macrocosmo.
Per concludere, si prenda in considerazione un esempio. Appurato che un praticante costituisce un microcosmo nel macrocosmo Viet Vo Dao, si consideri il suo operato. Infatti se un praticante è diligente e intraprende degli studi più approfonditi sull’Arte Marziale (comportamento = causa finale =causa ), come risultato potrà, per esempio, produrre un’ottima tesi (effetto) che ne arricchirà le conoscenze (altro effetto).
Tuttavia gli effetti benevoli della sua condotta non saranno utili a livello di microcosmo, ovvero non avranno come risultato solo l’arricchimento personale, bensì contribuiranno alla crescita (effetto) del macrocosmo Viet Vo Dao.
In fondo, questa legge dei tre principi, cita solo delle cose che se ci ragioniamo bene sono abbastanza facili ed elementari. Purtroppo però, coinvolti in un mondo che non sa più ascoltare, ce li siamo scordati e li abbiamo persi di vista. Ed è per questo, che il Viet Vo Dao, nella sua splendida completezza, ce li vuol far recuperare.
Đinh Lý Tam Tao, la legge dei tre elementi creatori.
Il Taoismo: sviluppo storico e definizione.
Parlare brevemente della seconda legge è pressoché impossibile. Essa si addentra infatti nel complesso universo del taoismo, filosofia di vita o religione che, sebbene parta da un concetto molto semplice, si sviluppa in ogni aspetto della vita. Cercheremo quindi di definirla bene e di non perdere eccessivamente il filo del discorso. Del Taoismo non è possibile stabilire con precisione cronologica l’epoca originaria di formazione, ma la sua apparizione si può far risalire al periodo della dinastia Chou (1027-481 a.C.). Si distinse per la notevole forza polemica, per lo spirito critico, per la sua posizione anticonformista; recuperò l’antico patrimonio religioso del popolo cinese e lo interpretò come impegno totalizzante della persona, con esperienze mistiche, magiche, astrologiche, divinatorie che investivano l’intero piano dell’essere, proponendo una via salvifica personale all’individuo.
Tuttavia il taoismo, anche quando si organizzò in religione, perpetrandosi nella vita sociale cinese non diventerà mai religione di stato. Due furono i momenti storici dello sviluppo del taoismo. Il primo fu il taoismo sviluppatosi fra il settimo e il quinto secolo a.C., all’epoca della prodigiosa fioritura di scuole di pensiero in Cina. I principali filosofi che si possono menzionare per questa corrente furono Lao-Tzu, Chuang-Tzu, Lieh-Tzu. Il secondo momento storico fu il taoismo religioso o popolare che apparve sotto la dinastia degli Han. A guidare le masse contadine affamate e desiderose di un ordine nuovo, una specie di visionario taumaturgo, Chang Chiao. Ma ben presto i ribelli furono annientati dall’efficiente macchina statale che ristabilì l’ordine con feroci repressioni nelle quali morirono migliaia di contadini.
Verso il quinto secolo d.C., il taoismo parve consolidarsi come chiesa con le sue strutture gerarchiche opposte a quelle buddhiste e confuciane. A capo della chiesa vi è il maestro celeste: T’ien-Shih, una specie di papa taoista; le varie comunità furono presiedute da maestri e shih. Vi sono poi i Signori (Chu-chih) e i Maestri dei talismani mentre i membri che non fanno parte della gerarchia costituirono quello che venne chiamato il “popolo taoista”.
Tra i tanti imperatori cinesi (alcuni ostili, altri indifferenti e solo pochi favorevoli al taoismo) ricordiamo: Li Shih- min, uno dei più grandi imperatori della Cina, che ampliò con la sua politica gli orizzonti culturali e religiosi del paese, sostenendo il taoismo nella sua diffusione; Kao- Tsung, il quale visitò Poh-Chow (patria di Lao-tzu) e dispose che i funzionari alle cariche pubbliche studiassero il Tao Teh-ching; Lung-chi, che subì l’influenza del misticismo taoista e ordinò il culto di stato per Lao-tzu, facendo erigere un’accademia per lo studio dei classici taoisti.
In questo periodo furono riconosciuti al confucianesimo e al taoismo uguali funzioni e diritti. Più avanti nei secoli, il taoismo dovette subire il confronto con altre dottrine e, a seconda dell’imperatore regnante, fu approvato o messo al bando. Fino al 1311 il taoismo fu rappresentato ufficialmente nell’amministrazione pubblica, dove si sviluppò al di fuori dell’ufficialità come una delle forze più autenticamente cinesi e costituì l’unica vera alternativa spirituale, fino a giorni nostri, per chi intendeva inserirsi nella tradizione religiosa nazionale cinese.
Secondo il pensiero taoista (che in questo non si discosta molto da quello confuciano) esiste un’armonia universale che lega tutti i livelli del cosmo: terra, uomo e cielo. Il principio su cui si fonda è il tao, termine di difficile interpretazione, tanto che un verso del Taodeing contiene una descrizione di ciò che, piuttosto, non è: “Il tao che può essere definito col nome non è il tao costante”.
Il tao, che è presente in ogni cosa e la condiziona, è un flusso vitale che ha dato origine a tutto, e che scorre incessantemente, mutando sempre e rimanendo sempre lo stesso. Associata ed esso vi è, ovviamente la concezione dello yinyang.
La tradizione taoista chiamò Yin e Yang questi inseparabili principi intrinseci al vivere. Yin e yang sono i due principi che mantengono l’ordine naturale del tao: – yin è il principio femminile, passivo ed oscuro, identificato con la luna; – yang è il principio maschile, attivo e luminoso.
Yin e yang sono opposti e complementari tra di loro, relativi (si può essere yin sotto un certo aspetto e yang sotto un altro) e non antitetici, tanto che nella pienezza dell’uno è implicita l’origine dell’altro. Il loro alternarsi determina tutte le cose.
Il simbolo del Tao è formato da due spirali, una che si avvolge e l’altra che si svolge a partire da un unico Centro. Le due spirali rappresentano la discesa ed ascesa degli aspetti opposti di ogni energia del cosmo. Il Simbolo pertanto è una simmetria rotazionale ciclica : la spirale bianca ha l’inizio dove finisca la spirale nera; essa si avvolge ed aumenta fino ad un massimo ma poi manifesta in se stessa la sua tendenza opposta (puntino nero) che appunto a partire da questo momento si svolge. Anche questo aspetto raggiunge un massimo finché si manifesta la tendenza opposta (puntino bianco), che si avvolge e così via, ciclicamente.
Questo ciclo unifica nella monade Universo tutte le energie del cosmo nei loro aspetti opposti rendendoli così complementari. In modo analogo il taoismo concepì l’antico genio dal corpo di serpe in forma duale e ne precisò dualità di forme, caratteri, nomi. Nella mitologia cosmogonica taoista due leggendari Augusti, Fuxi e Nugua avevano corpi di spire, sovente intrecciati l’un l’altro. Essi furono gli ordinatori del mondo. Più volte introdotti come fratello e sorella, come sposi o come amanti, Fuxi e Nugua valgono nel mito la coppia primigenia da cui l’umanità discende. Erano certo tempi diversi in cui uomini e animali vivevano in totale unione.
Anche Yao e Shun, due degli antichi primi Cinque Imperatori, precisò il maestro taoista Lieh tse, avevano parti del corpo di forma animale e sudditi e truppe animali. Nell’iconografia antica, il Genio primitivo dalla coda di serpente ha dunque due forme e due nomi. Forse molti di più. Non vi è qui metamorfosi tra l’uno e l’altro aspetto. La metamorfosi, la trasformazione ci insegna ancora Lieh tse, è propria dell’esistente.
Egli, il Genio Mostruoso, è principio e essenza e semplicemente vive, assoluto e immutabile, contemporaneamente e senza contraddizione presente in differenti e complementari espressioni. Il Genio Mostruoso ha dunque due forme e due nomi ed entrambi i nomi introducono al Fuoco, il movente del calore vitale. Egli è Zhu Long, il Drago Fiammeggiante, e parimenti egli è Zhu Yin, l’Oscurità Fiammeggiante.
Sono queste le due forme in cui e da cui si esprimono le forze vitali del mondo, il principio e la sorgente stessa di tutti i fenomeni e gli venti di natura. “Zhu Long il Drago Fiammeggiante vive a nord alla Porta delle oche Selvatiche. Se ne sta chiuso nei Monti Wei Yu, dove non si vede mai il sole. Questo Spirito ha volto di uomo e corpo di drago. Non ha piedi.”
L’obiettivo del Taoismo filosofico è quello di raggiungere la santità, lo stato di perfetta armonia con il mondo naturale, uno stato che si acquista uniformandosi ad esso tramite meditazione ed estasi, che permettono l’identificazione con il tao. La natura non deve essere alterata dall’azione umana, e per questo il taoista pratica e predica il “non agire” (wu wei) in tutti i campi (anche in quello politico), non lasciandosi turbare né dai mutamenti, né dalla morte.
Nel Zhuangzi è messa in risalto anche la necessità di non fare distinzioni, di raggiungere lo stadio di una “non conoscenza”, la quale si ottiene solo dopo aver conosciuto. Come religione popolare, il Taoismo mise in atto diverse pratiche per potenziare e per rendere immortale il corpo: diete alimentari di vario tipo (inclusa l’ingestione di prodotti ottenuti tramite ricerche alchemiche), tecniche respiratorie (come lo yoga cinese), ginniche, sessuali, e contemplative.
Nelle numerose leggende taoiste, un posto di rilievo è assegnato ai cosiddetti “Otto Immortali” (di cui ho messo un’affascinante illustrazione), un gruppo di personaggi (uomini e donne) che, avendo ottenuto in vita poteri soprannaturali, sono stati santificati dopo morti. Oltre agli Immortali, e accanto a Laozi – identificato spesso con Huanlao (Il Vecchio Giallo), uno dei cinque creatori del cosmo -, c’è un numero elevatissimo di divinità eterogenee, organizzate gerarchicamente, come i protettori di mestieri e dei fenomeni atmosferici; gli spiriti degli elementi della natura; le anime di diverse località (cimiteri, luoghi, guadi, strade); i demoni; le anime degli impiccati, degli annegati e degli antenati; i santi taoisti, confuciani e buddhisti, eccetera.
Applicazione nella Filosofia del Viet Vo Dao.
Tutto questo ci serve per avere uno sguardo d’insieme su uno dei sistemi di pensiero più complessi ed interessanti del mondo. La seconda legge, non fa altro che riprendere i principi chiave e trasferirli nel Viet Vo Dao perché, come appare evidente già dal motto della nostra Arte Marziale –quel mano d’acciaio su cuore di bontà, che sa tanto da unione di yin e yang, o am e duong-, nulla si presta di più ad una lettura in chiave taoista della nostra completissima disciplina. Nella concezione del Viet Vo Dao, la seconda legge, la legge dei tre elementi creatori, semplicemente regola le dinamiche dell’universo.
Come abbiamo visto, alla base dell’intera filosofia taoista c’è la considerazione, comune a molte culture, che tutto ciò che esiste è espressione del movimento dell’energia, nella continua evoluzione della proporzionale quantità tra le sue due qualità yin e yang. Tuttavia, di sicuro non è facile, soprattutto per chi è cresciuto ed è stato educato nella cultura occidentale, comprendere la portata di tali concetti. Di certo, oltre alle differenze culturali, un altro grosso ostacolo sono state le differenze linguistiche e, non ultime, calligrafiche. L’ideogramma Yin è stato tradotto molto spesso con negativo mentre quello di yang con positivo, conferendo a yang il valore di buono mentre a yin il valore contrario. In realtà, la dialettica in questione è notevolmente diversa o, per lo meno, molto più complessa ed articolata.
Yang è la luce, il giorno, il fuoco, il cielo; yin è il buio, la notte, l’acqua, la terra. Non sono l’uno il contrario dell’altro, ma l’uno il complemento dell’altro. Sono le due facce della stessa medaglia, sono i due elementi imprescindibili di ogni cosa: non esiste il giorno senza la notte, non esiste la terra senza il cielo, non esiste l’uomo senza la donna. Tornando alla considerazione che tutto ciò che esiste è formato da energia, è logico dedurre che ogni cosa sarà formata da una determinato quantità di yin e yang e, pertanto, nulla sarà assolutamente uno o l’altro.
Il simbolo del tao, che rappresenta l’energia assoluta, fa ben capire la complementarità e la coesistenza di questi due elementi. Il nero rappresenta yin e il bianco rappresenta yang; quando yang aumenta yin diminuisce e viceversa, sempre in maniera proporzionale, senza mai arrivare all’estinzione o alla completezza di una delle due.
La legge dei tre elementi, che riprende la concezione orientale dell’energia, stabilisce che l’esistenza di ogni cosa è il risultato dell’unione di AM, che corrisponde a yin, e DUONG, che corrisponde a yang, e del DAO che è la “via”. Am e Duong sono elementi costitutivi di ogni cosa, perché sempre presenti in quantità proporzionale e, quindi, nulla sarà assolutamente Am o assolutamente Duong. Ogni cosa che esiste può essere definita Am o Duong osservandone la forma esteriore e le caratteristiche e considerandone l’applicazione. Il ghiaccio è solido quindi si potrebbe vederne aspetti Am rispetto l’acqua allo stato liquido, che in relazione appare chiaramente Duong, ma l’acqua diventa Am se la si confronta col fuoco che diviene quindi Duong. Ciò che determina la distinzione tra la predominanza di qualità Am rispetto a Duong è proprio il terzo degli elementi creatori: il Dao.
Il Dao è quell’elemento che mantiene l’equilibrio della proporzionalità tra Am e Duong. Il Dao, come detto, è la via, è l’insieme dei principi che portano a vivere in equilibrio, cioè vivere seguendo la propria strada affrontando le prove che la vita propone con il giusto equilibrio tra Am e Duong, tra forza e flessibilità, tra fermezza e tolleranza. Le applicazioni nel Viet Vo Dao sono innumerevoli. Come abbiamo detto all’inizio di questo capitolo il motto stesso della nostra Arte Marziale richiama i principi cardine di armonia tra Am e Duong. Pensiamo però anche allo stesso stemma, dove campeggiano le canne di bambù: lo stesso bambù è emblema di aspetti Am e Duong, di armonia tra forza e flessibilità.
Ogni praticante di Viet Vo Dao dovrebbe vivere la propria vita –come praticante e non solo- seguendo questi principi. Imparerebbe così, che la bellezza di questa disciplina risiede proprio nella sua armonia. Imparerebbe ad eseguire un quyen con il giusto equilibrio tra forza ed elasticità, tra eleganza ed impeto, tra slancio ed equilibrio, nonché tra movimenti lenti e movimenti veloci. Fuori dalla palestra, questa legge aiuterebbe il vo sinh nel giudicare in maniera più equilibrata tutto ciò che riceve dalla vita: gioie e dolori, sacrifici e ricompense, impegno e riposo.
La legge dei tre elementi creatori è forse l’insegnamento più importante che un praticante può desumere dalla filosofia del Viet Vo Dao per imparare a ragionare in un’ottica più equilibrata di quella assolutistica che vige in occidente. Qui, infatti, ormai tutto viene considerato assolutamente e aprioristicamente o nero o bianco e tale differenziazione non lascia nessuno spazio alla complementarietà degli opposti, bensì solo ad aperto e chiaro contrasto fra di loro.
Đinh Lý Thủỏng Dich, la legge dell’evoluzione permanente.
Dall’evoluzionismo all’evoluzione permanente, sviluppo della teoria nel pensiero filosofico occidentale. Un altro punto chiave della filosofia del Viet Vo Dao è, di sicuro, la legge dell’evoluzione permanente. Quando si parla di evoluzione, in occidente, non si può non far riferimento all’evoluzionismo di Charles Darwin. L’opera di Darwin ha segnato una svolta importantissima nella nostre cultura, offrendo un paradigma interpretativo della natura e dell’uomo tale da sconvolgere completamente il punto di vista tradizionale. Anche se l’idea di “evoluzione” non è una scoperta di Darwin, è stata la sua opera a dare alla nuova teoria credibilità scientifica e culturale. Rispetto ai suoi precursori – come Lamarck- Darwin ebbe senza dubbio il merito di avere trovato la spiegazione del meccanismo evolutivo, mutuandola in parte dalla teoria della “lotta per l’esistenza” del connazionale Thomas Robert Malthus. Il meccanismo di selezione naturale, fondato principalmente sulla riproduzione, spiegava per lui la trasformazione del mondo naturale e l’origine stessa dell’uomo. Mentre per Darwin la teoria della selezione naturale restava confinata nel campo del mondo naturale, però, molti dei suoi seguaci e dei suoi divulgatori – presto comparsi con successo in ogni paese d’Europa – allargarono le sue teorie alla società, contribuendo, direttamente o indirettamente, alla nascita dell’eugenetica e allo sviluppo del razzismo.
Il paradigma darwiniano, così coerente ad una società che stava vivendo lo straordinario progresso della rivoluzione industriale, si diffuse rapidamente in ogni campo del sapere, anche quelli più lontani dalla scienza, come la letteratura. Dall’evoluzionismo sono nate molte nuove scienze, come la paleontologia e l’antropologia e, per certi aspetti, la psicologia. Quasi tutti i divulgatori tesero a dare una forte impronta materialistica al darwinismo, facendone una bandiera contro la religione e facendo di Darwin un simbolo dell’ateismo. Non si tratta, in fondo, di un problema lontano, ottocentesco, bensì di uno molto attuale, come dimostrano discussioni recenti come quella sull’insegnamento dell’evoluzionismo nei nuovi programmi scolastici.
Ben più importante, per la questione che ci interessa in questa tesi, è l’evoluzionismo in ambito antropologico. Studiosi come Edward Burnett Tylor e James Frazer in Gran Bretagna si occuparono dell’argomento lavorando soprattutto su materiali raccolti da altri, di solito missionari, esploratori, o ufficiali coloniali e, per questo, vennero definiti “antropologi da poltrona”. Bisogna quindi trasferirsi negli Stati Uniti, per incontrare il caposcuola degli antropologi evoluzionisti, ovvero Lewis Henry Morgan, da molti considerato come il primo grande antropologo. Egli concentrò la ricerca sui nativi americani, stabilendo con alcuni di essi rapporti molto profondi.
Questi etnologi/antropologi erano interessati in modo particolare alle motivazioni per cui i popoli che vivevano in diverse parti del globo avessero credenze e pratiche simili. Tutti fondavano la loro teoria sulla convinzione dell’esistenza di un progresso nella storia dell’uomo.
La storia della società umana era vista come il prodotto di una sequenza necessaria di stadi di sviluppo sempre più complessi, culminante nella società industriale di metà Ottocento.
Le società contemporanee più semplici non avevano ancora raggiunto gli stadi culturali più elevati del progresso e potevano essere ritenute simili alle società più antiche. In questo quadro si cercava di dare spiegazione di comportamenti e usanze ritenute altrimenti insensate: sarebbero state sopravvivenze di precedenti stadi culturali.
In questo paradigma teorico, i popoli “selvaggi” sparsi sui vari continenti possono illustrare le condizioni di vita degli uomini preistorici, antenati della nostra civiltà. Per cui le società non europee venivano viste come dei “fossili viventi” di stadi di evoluzione sorpassati dalla civiltà occidentale e che potevano essere studiati per gettare luce sul passato di quest’ultima.
Quest’approccio teorico implicava una contrapposizione alle teorie razziste che sostenevano vi fossero differenze razziali e biologiche tra i vari popoli. Per gli antropologi evoluzionisti la specie era unica e non vi sono differenze biologiche tra i vari gruppi per quanto riguarda le abilità mentali. Per questo era possibile per ogni gruppo sociale percorrere le tappe che lo avrebbero fatto progredire.
La legge dell’Evoluzione Permanente nel Viet Vo Dao
Al nostro scopo, risulta interessante principalmente l’evoluzione come susseguirsi di stadi.
L’evoluzionismo occidentale è molto più materialista e concentrato sul dare spiegazioni di fenomeni già avvenuti – come il mutamento di una specie o l’evolversi di una società.
Come detto nei capitoli precedenti, ciò richiama un po’ l’ossessione occidentale per il risultato finale: quello che interessa, anche in questo caso, è la mera spiegazione del fatto compiuto.
Più che spiegare come va il mondo, o come si evolverà in futuro, gli evoluzionisti parvero più interessati a rispondere alla domanda “come siamo giunti a questo punto?”.
Questo, in fin dei conti, ne rappresenta il più grosso limite. Per la filosofia orientale, invece, l’evoluzione è un qualcosa di più generale ed universale ed in quest’ottica va considerato.
Del resto, sin dall’antichità, l’osservazione dei fenomeni della natura è stata spunto per l’uomo per l’elaborazione di tutte le teorie filosofiche e scientifiche alla base delle sue conoscenze.
Questa affermazione, tuttavia, non suona nuova a noi occidentali.
A pensarci bene, infatti, un simile concetto fu affermato, nell’antica Grecia (tra 500 e 400 a.c.) da Eraclito di Efeso con il suo celebre panta rei, ovvero “tutto scorre”.
Affermando che “tutto scorre, non ci si può immergere due volte nello stesso fiume”, Eraclito tendeva a considerare tutto il mondo come un enorme flusso perenne nel quale nessuna cosa è mai la stessa poiché tutto si trasforma ed è in una continua evoluzione. Per questi motivi, Eraclito identificò la forma dell’essere nel divenire, visto che ogni cosa è soggetta al tempo e alla sua relativa trasformazione. Eraclito sostenne che solo il cambiamento e il movimento siano reali e che l’identità delle cose uguali a se stesse sia illusoria: per Eraclito tutto scorreva, dunque (di qui panta rei). Lo stesso panta rei è una conseguenza di polemos (guerra, conflitto), che regna su tutto. Di conseguenza Eraclito non fu il filosofo solo del “tutto scorre” ma del “tutto scorre in quanto risultato della tensione continua degli opposti in continua opposizione.
Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l’uomo né le acque del fiume sono gli stessi
a sottolineare la continua mutevolezza delle cose e l’impossibilità pressoché totale di tornare allo stadio iniziale.
L’evoluzione è data, perciò, da tre fasi, o meglio può assumere tre direzioni: verso il progresso, verso la decadenza o la condizione di stabilità. Un esempio che ci può aiutare a focalizzare queste tre possibili direzioni è lo studio degli antichi imperi che segnarono la storia: essi ebbero un’iniziale ascesa (progresso), una fase in cui la loro sovranità si esercitò constante ed indisturbato (stabilità) ed infine vi fu la decadenza –inesorabile o dovuta ad atti violenti- che ne segnò la scomparsa (decadenza) o meglio ancora, come vedremo nel prossimo capitolo, il mutamento in qualcosa di diverso (ad esempio gli Stati moderni).
Si ritorna così alla questione appena affrontata di Am e Duong. Infatti il progresso rappresenta lo stadio Duong, positivo, dell’evoluzione. Ad esso sono correlati i progressi, la crescita, gli incrementi e, quindi, in un senso più generale, i miglioramenti. Viceversa, il regresso o decadenza rappresenta lo stadio Am, ovvero quello in cui vi è un decadimento o la diminuzione. Nella parabola della vita di un uomo, dunque si potrebbero incontrare le fasi Duong di crescita, Dao di equilibrio ed armonia fra i due momenti e Am (dalla vecchiaia fino alla morte) di regresso.
Urge però una precisazione, onde evitare di cadere nella grossolana semplificazione Crescita-Duong = Positivo ; Regresso-Am = Negativo. Infatti, è assolutamente vero che per ogni aspetto in cui vi è un’evoluzione in senso positivo, ve n’è un’altra in cui, viceversa, vi sarà un’involuzione che tende al regresso, e questo non sempre è un bene. Ad esempio, l’aumento di una popolazione in una determinata area comporterà sì il consolidarsi di una comunità ma, d’altro canto, comporterà anche la diminuzione di spazi verdi, di alberi e non ultimo di risorse disponibili. Se consideriamo la nostra società, è vero che vi sono state invenzioni e miglioramenti della vita, ma è anche vero che questo progresso ha portato anche all’isolamento dell’uomo o, peggio ancora, a guerre e morte, quindi ad un regresso.
Si è già parzialmente accennato alla fase di stabilità. A lungo si potrebbe discutere circa la sua esistenza e circa la sua appartenenza o meno al processo evolutivo. Innanzi tutto, esiste in fondo una vera e propria stabilità? Detta in altro modo, esiste una fase nella quale progresso e regresso siano perfettamente bilanciati e nessuno dei due prevalga, neanche minimamente, sull’altro? A quanto pare, sì.
La ragione di questa risposta affermativa sta tutta nel secondo punto: la stabilità è veramente uno degli tre stadi dell’evoluzione? In senso strettamente etimologico, l’evoluzione indica un cambiamento (positivo o negativo) da uno stato ad un altro. Ora, quello che si verifica in uno stato di stabilità è, invece, proprio il “non cambiamento”, il protrarsi di una determinata condizione.
Tuttavia, la stabilità, in questo caso, va vista piuttosto come una situazione non di ristagno, bensì di equilibrio. Rispondendo ad entrambi quesiti di questo paragrafo, esiste di certo uno stadio di stabilità nel quale progresso e regresso sono in perfetto equilibrio e, per questo, la stabilità diviene uno stadio evolutivo che funge da vero e proprio confine tra le fasi di progresso e di regresso.
Uno dei principali insegnamenti che la legge dell’evoluzione permanente ci vuole trasmettere sta tutto nell’importanza del riconoscere l’esistenza dei processi evolutivi in ogni cosa affinché si possano accettare i cambiamenti nella vita e, quindi, vivere in armonia e con serenità. Accettare il cambiamento significa, in fin dei conti, accettare le conseguenze che esso comporta, vivendo in armonia e serenità con se stessi e con ciò che ci circonda.
Inoltre, come abbiamo visto negli esempi precedenti, è necessario riconoscere e rispettare tutti i processi evolutivi, non solo quelli individuali, perché la crescita del singolo non deve essere in contrasto con la crescita degli altri o causarne il regresso. Ovviamente, questo prezioso insegnamento si pone in aperto contrasto con l’ottica individualistica che il mondo occidentale ha assunto. Il bene del singolo, ormai, prevale sul bene collettivo; gli infiniti scopi particolari, prevalgono sul fine generale.
Ma tutto ciò è un’arma a doppio taglio, perché prima o poi gli effetti devastanti della nostra condotta individualista si ripercuoteranno su di noi. La legge delle evoluzione permanente, quindi, dev’essere letta anche come un monito, come un consiglio da ascoltare attentamente, affinché la collettività non venga messa in disparte, assoggettata dall’individualismo e dall’egoismo. Per comprendere meglio l’importanza di questa legge nel Viet Vo Dao, citiamo, per esempio, il primo principio fondamentale del praticante. Esso recita: Raggiungere il più alto livello dell’arte per servire l’umanità
Quel “raggiungere il più alto livello dell’arte” è un chiaro invito affinché il praticante tenda sempre al progresso personale, nonché a quello dell’umanità. Il progresso del praticante, ad ogni modo, non dev’essere fine a se stesso. Prendiamo il caso di un vo sinh che si impegni e migliori ma solo per proprio tornaconto. Una volta raggiunto un certo livello (progresso), se non dovesse mettere a disposizione le proprie capacità, resterebbe isolato (stabilità), entrando lentamente in un vortice di autoesclusione e deterioramento (regresso). Invece un praticante saggio, migliorerà le sue competenze (progresso del singolo), ma in contemporanea le metterà a disposizione del suo maestro e dei suoi condiscepoli (progresso collettivo).
Anche nel Viet Vo Dao, ad ogni modo, bisogna saper distinguere gli stadi che si stanno attraversando. Così come nel progresso non bisogna accontentarsi, nella fase di regresso bisogna prendere atto del momento che si sta attraversando, per uscirne e migliorare. Nella fase di stabilità si è, invece, nella delicata situazione in cui, i nostri atti possono portarci verso una o verso l’altra direzione. Risulta, quindi fondamentale, sapere che in fase ci si trova e vivere serenamente la propria vita. Un quyen non verrà mai eseguito in maniera identica, tanto quanto le acque del fiume che citò Eraclito non erano più le stesse. Bisogna allenarsi per migliorarne l’esecuzione e, qualora si ravvisi una fase di ristagno, non bisogna intestardirsi troppo sulle stesse cose, poiché questo potrebbe condurci al regresso e all’autoannichilimento. Bisogna cercare nuove maniere, nuovi stimoli per migliorare. Nel Viet Vo Dao, così come nella vita.
Đinh Lý Miên Sinh, la legge dell’eterna ripetizione.
L’eterno ritorno: l’eredità nietzschiana nella Filosofia occidentale.
Per chiarire l’estrema importanza dell’eterno ritorno in Nietzsche, leggiamo i brani qui riportati. Il primo è tratto da La gaia scienza: Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione […]. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”.
Il secondo, invece, è tratto dal celebre così parlò Zarathustra: “[…] proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia. “Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: “attimo”. Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?”. “Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”.
[…] Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attìmo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque anche se stesso?
[…] E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via non dobbiamo ritornare in eterno?”. Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero corse all’indietro. Sì! Quand’ero bambino, in infanzia remota: allora udii un cane ululare così.
[…] D’un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna. Ma qui giaceva un uomo! E proprio qui! il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, adesso mi vide accorrere e allora ululò di nuovo, urlò: avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo? E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava invano! Non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!”, così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me buono o cattivo gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.
[…] Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l’enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini! Giacché era una visione e una previsione: che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l’uomo, cui le più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci? Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente; e balzò in piedi.
Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora!
5 Friedrich Wilhelm Nietzsche, Così parlò Zarathustra, BUR, Milano, 2008. Nel caso specifico del discorso esistenziale, Nietzsche fa notare che (essendo le “cose del mondo” di numero finito, e il tempo infinito) anche nella vita umana questo concetto è applicabile: ogni evento che possiamo vivere, l’abbiamo già vissuto infinite volte nel passato, e lo vivremo infinite volte nel futuro. La nostra stessa vita è già accaduta, e in questo modo perde di senso ogni visione escatologica[2] della vita. In Così parlò Zarathustra Nietzsche mostra come il comprendere questo punto sia fondamentale nel processo di crescita spirituale che porta all’Oltreuomo. La caratteristica fondamentale dell’Oltreuomo sta proprio nella sua capacità di non pensare più in termini di passato e futuro, di principi da rispettare e scopi da raggiungere, ma vivere “qui e ora” nell’attimo presente.
Da Nietzsche all’oriente: la legge dell’Eterna Ripetizione nel Viet Vo Dao.
Molti dei concetti enucleati da Nietzsche non sono altro che la rivisitazione di pensieri che, già da millenni, erano stati fatti propri dalle filosofie orientali. Certo, affermare che il celeberrimo filosofo tedesco si sia ispirato a tali correnti di pensiero è un po’ presuntuoso, però, ad ogni modo, si sa di un certo fascino per l’orientale in Nietzsche, e ciò basta per collegarci con la quarta legge in questione. Questa è una legge universale per la fisica, da questo concetto discende l’idea di trasformazione di tutto e se tutto è energia , questa può prendere tutte le forme ammissibili. Ad esempio, da un seme nasce un albero, dal quale nascerà un frutto, che cadendo fertilizzerà la terra, dalla quale nascerà, infine, un frutto. Come detto, il punto di partenza sta nella convinzione che ogni fenomeno tenda alla ripetizione, cioè che ogni cosa tenda a ripetersi. L’osservazione e lo studio delle manifestazioni della natura, nata dalla necessità di sopravvivenza e la ricerca di migliorare il benessere, vale a dire prevenirne le conseguenze e trarne beneficio, è stata anche spunto per gli uomini di tutte le civiltà, antiche e moderne e di qualsiasi provenienza, per l’elaborazione delle più importanti teorie filosofiche e scientifiche. Le popolazioni antiche, come ancora oggi opera la scienza moderna, attraverso i segni della natura prevedevano i fenomeni naturali e gli eventi climatici. La filosofia orientale -e di conseguenza la concezione filosofica alla base del Viet Vo Dao- fondarono le loro affermazioni sulle osservazioni e lo studio dei fenomeni naturali ed il riferimento a ciò che accadeva in natura, rendeva più facile ed immediata la loro comprensione. Un importante concetto nella filosofia orientale, quello espresso dalla legge dell’eterna ripetizione, è quello che considera l’andamento ciclico della quasi totalità dei fenomeni naturali rapportandolo al funzionamento ciclico delle dinamiche universali; molti sono gli eventi naturali che hanno una costante ciclicità, come l’alternasi del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni, la rotazione dei pianeti, le maree, i venti. L’andamento ciclico degli eventi porta alla considerazione che lo stesso fenomeno determina sempre uguali conseguenze, come la periodica piena dei fiumi che allaga i terreni vicini al suo letto rendendoli fertili, e che la stessa causa porta sempre il medesimo effetto. E’ un concetto molto importante –e qui ci riallacciamo con la prima legge- perché, se è sempre la stessa motivazione che determina l’effetto, per impedirne il verificarsi bisogna intervenire sulla causa.
Spesso molte persone continuano a vivere esperienze negative senza rendersi conto che esse sono la conseguenza degli stessi errori. Solo riconoscendo tali errori ed evitandoli s’interrompe il circolo vizioso che porta a vivere le stesse esperienze. Dal concetto di trasformazione vediamo che c’è una continua ripetizione degli eventi. Possiamo distinguere due cicli ripetitivi: quelli che riguardano l’uomo, la vita e la morte, le grandi civiltà umane (maya, egiziana, cinese, l’impero romano), e un ciclo ripetitivo naturale, il giorno e la notte, le stagioni. Le grandi civiltà quando hanno raggiunto il massimo livello di potenza, il massimo splendore, sono cadute , sono crollate perché hanno trascurato il loro equilibrio interno, pensando solo alle conquiste, andando incontro alle grandi guerre che continuano a ripetersi nei secoli e che portano alla distruzione, sperando in una rinascita migliore. Le guerre, che ciclicamente nella storia si sono ripetute, sono un esempio di quanto concreto sia questo concetto; nel corso dei secoli sempre le stesse motivazioni, come la sete di potere o la smania di conquista, hanno spinto gli uomini a scontrarsi tra loro. Ovviamente, non si può non notare come il concetto dell’eterna ripetizione richiami un’importante concezione filosofica della religione Buddista, la teoria dei Karma, secondo la quale nulla si crea e nulla si distrugge, poiché tutto è in continua evoluzione e perciò ogni forma di vita non finisce con la morte, che diventa un momento di transito verso una nuova forma di vita in eterna ripetizione. Gli errori tendono a ripetersi nella vita e impediscono l’evoluzione spirituale, per ciò l’uomo deve uscire da questo ciclo di ripetizione, riconoscendo e ammettendo gli sbagli. Lo scopo dell’evoluzione è quello di poter raggiungere il Nirvana, cioè uno stato di pace che permette di vivere in serenità con se stessi senza più pagare per ciò che si ha male seminato. Il ripetersi delle vite serve all’uomo per correggere gradatamente i propri errori e raggiungere così l’illuminazione. Solo a livello umano è, però, ammissibile intervenire sul ciclo dell’eterna ripetizione. La ciclicità dei fenomeni naturali invece, deve essere assolutamente rispettata; l’intervento dell’uomo che mira a dominare la natura interrompe il naturale equilibrio delle cose peggiorando, spesso, le conseguenze. Gli esempi, anche nella storia recente, sono numerosi; molti disastri sono stati causati dall’intervento dell’uomo che, non rispettando i segnali delle manifestazioni della natura, ha causato grandi sofferenze.
L’applicazione di questa legge al Viet Vo Dao è presto rintracciabile. Richiamando un po’ quanto detto per la terza legge, quella dell’evoluzione permanente, se, per esempio, l’allenamento continuo non porta ad alcun miglioramento e non porta alla crescita del praticante, è inutile insistere ed intestardirsi: è, invece, necessario identificare gli errori che si commettono e correggerli per proseguire nell’evoluzione.
In definitiva la quarta legge ci aiuta ad accettare meglio quello che siamo e quello che stiamo passando, per vivere in maniera più serena e più consapevole la nostra esistenza, nonché quella degli altri perché, in fondo, l’Universo tutto si riconduce ad un costante ripetersi di cicli vitali.
Perché le quattro leggi?
Nei precedenti capitoli si sono affrontate la quattro leggi fondamentali individualmente, vedendone analogie e possibili radici storiche nel pensiero filosofico occidentale, affrontandone le caratteristiche fondamentali per poi passare a vederne i benefici che se ne possono trarre per il praticante di Viet Vo Dao.
Ora, in queste conclusioni, bisogna interrogarsi sul perché delle quattro leggi e, soprattutto, bisogna chiedersi se, effettivamente, queste abbiano un insegnamento comune da trasmettere, ovvero un filo conduttore che le unisca e ce le faccia considerare come singoli elementi di un unico grande pensiero generale.
Generalmente, si potrebbe dire che le quattro leggi fondamentali sono quattro teorie che regolano ogni aspetto dell’Universo. Tutte, infatti, ci descrivono come, quando, e quanto le cose succedono. Sappiamo che vige un principio di causa/effetto, che esiste un legame fra micro e macrocosmo e che in ogni cosa vi sono aspetti Am e aspetti Duong (come), sappiamo che tutto occorre ciclicamente e tende a ripetersi (quanto e quando) e sappiamo che tutto è in continua evoluzione.
Come visto in ogni capitolo, abbiamo cercato di vedere che insegnamento un vo sinh può tratte da ognuna di queste leggi. Per tale motivo, si è visto come vi siano validi suggerimenti sul come vivere la propria vita da praticante, sul come rapportarsi con gli altri, sul come giudicare le cose e sul come saper vivere ciò che ci sta capitando. Insomma, ci si possono trovare moltissime indicazioni per una pratica più saggia e consapevole.
Facendo uno sforzo magari non necessario, cerchiamo di trarre un insegnamento unico dalle quattro leggi. Mettendo insieme quello che abbiamo affrontato finora, si può dire che queste ci insegnino a non giudicare le cose solo per il loro aspetto ultimo, ossia di guardare alle cause e non solo all’effetto. Effetti che, comunque, non vanno considerati solo nella loro specificità, bensì vanno visti in un’ottica più ampia, essendoci, sempre e comunque, una certa corrispondenza fra la nostra microesistenza ed il macrocosmo.
Cause ed effetti, su macro e su microcosmo, sono comunque dei fenomeni evolutivi, che possono portarci al progresso, al regresso oppure ad una condizione di stabilità. Tutta questa evoluzione, infine, fa parte di un’eterna ripetizione, ovvero di un ripetersi ciclico delle cose, dove nulla si crea e nulla si distrugge, bensì si trasforma, ovvero si evolve –nel bene o nel male-. Per concludere, tutti questi processi vanno considerati e filtrati in un’ottica di bilanciamento fra Am e Duong e fra il loro equilibrio.
Dopo questo sforzo per riassumere il tutto in poche righe, proviamo, dunque, ad applicare insieme le quattro leggi alla vita del praticante in un semplice esempio. Le quattro leggi, per l’appunto, darebbero degli utili vantaggi al vo sinh se venissero messe in pratica. Vediamo, quindi, come si comporterebbe un praticante saggio e che benefici ne trarrebbe. All’inizio del suo percorso come allievo di Viet Vo Dao, ovviamente, il nostro vo sinh, sarebbe costretto a confrontarsi con i suoi limiti, quali rigidità (Am e Duong) e poca dimestichezza con l’Arte.
Non focalizzandosi solo sulla conseguenza diretta, il praticante cercherebbe le cause di questo disagio (Causa ed Effetto) e inizierebbe ad allenarsi per progredire (Evoluzione Permanente: progresso). Il suo costante miglioramento porterebbe sensibili vantaggi anche per tutto il Viet Vo Dao, giacché il nostro praticante consapevole, vedendo aumentare le sue capacità, darebbe un concreto aiuto agli altri, ad esempio aiutando il maestro con i nuovi iscritti (Microcosmo e Macrocosmo).
Arrivati ad un certo punto, dopo anni di pratica, il nostro vo sinh entrerebbe in un momento di stabilità (Evoluzione Permanente: stabilità) o addirittura di regresso (Evoluzione Permanente: regresso) in quanto il suo solito allenamento non produrrà effetti sperati. Starebbe, per tanto, alla saggezza del praticante, trovare nuovi stimoli, una nuova maniera di allenarsi, o magari ritrovare un nuovo equilibrio in sé stesso (Am e Duong), magari dedicandosi allo studio approfondito di movimenti lenti per migliorare quelli veloci, al fine di poter, nuovamente (Eterna Ripetizione), tornare a progredire per il bene suo e di tutto il Viet Vo Dao.
Solo così, grazie all’aiuto concreto delle quattro leggi fondamentali, potrebbe concretizzarsi sul serio quello che è il vero e proprio motto del Viet Vo Dao: essere forte per essere utili.